mercoledì 9 novembre 2011

Pozzuolo

A volte si ritorna sui propri passi, e non è tornare indietro.
E' rinnovare momenti che hanno segnato un'esperienza, felice o disgraziata.
Per una necessità di riscossa, ciò che m'interessa portare a presenza è la felicità, quella che ha radici in disgrazia, frutto maturo di un lavoro incessante, di fede fervente figlia, pianta del seme caduto nella gariga umana.
Di quel seme che non s'è arreso, perchè costituito della stessa sostanza terrena, fatta di terra arida e secca, è ammirabile il lavorio a cercar due vie, la discesa nella terra buia e la salita nella luce tra gli spiragli di pietra.
A tender l'orecchio il seme parla, della più semplice delle lingue:
"si fa con quel che c'è".
Le radici son poste, i mestieri della vita fervono e torno a riveder Pozzuolo.


Pozzuolo (foto di Francesca Perlini)


La Provinciale 103 è vuota. Vuota di auto per essere una strada, piena di tratti per fermarmi e camminarla.
Ricerco la curva, dopo la Pineta, da cui scoprii Pozzuolo. Ricerco il sussulto, lo stupore della prima visione e lascio l'asfalto per una prospettiva nuova.
La stessa, che scoprirò più tardi, essere stata di San Paterniano nell'atto di benedire il paese, ma Pozzuolo è benedetto da se stesso, s'è salvato dal degrado collettivo, è rimasto sposo fedele della terra che l'ha accolto. 
Rimango un tempo a camminare su questa strada bianca, c'è un piacere nei miei piedi che a tratti dimentica gli occhi e Pozzuolo al di là della stretta vallata. E' l'autunno nei piedi.
Ci penetriamo, non so più se son io a entrare nella terra o è la terra che penetra in me. E' la stagione fertile, è la stagione unita.
Può l'asfalto piantar semi d'amore? Può l'architettura gerarchica delle strade moderne costruire legami fedeli e duraturi?
Non è forse follia e allontanamento, l'autostrada della modernità?
Il mio seme arreso a questa terra, all'autunno dell'esistenza, ha radici profonde.
L'arresa è all'illusione di luoghi migliori, salvezza dallo sradicamento.
Mi sento di nuovo a casa.
Riprendo la via verso Pozzuolo e stavolta incontro qualcuno in paese, forse è la mia disposizione più serena, il desiderio di metter qualche parola nell'essere luogo, che necessita solitamente di silenzio e solitudine.
Un padre ed un figlio, Ennio e Gianfranco, mi raccontano che qui abitano una quarantina di persone. La terra non la lavora più nessuna famiglia. Solo qualche grande azienda agricola continua l'opera. Un venditore ambulante, di origini nord africane, col sacco di plastica legato alla bell'e meglio è salutato da Ennio, ed è il modo che mi tocca, una pacca sulla spalla "come va?"
Di nuovo torno a pensare che in questi piccoli luoghi, riparati dalle folli e difficili dinamiche dei grandi numeri, l'integrazione non esiste perchè è risvolto naturale di volti diversi. Si è integri dentro. Due padri si riconoscono, le stesse rughe, la stessa pesantezza, di un bastone uno e di un sacco di tappeti l'altro.
Per arrivare a Pozzuolo non cercate cartelli col suo nome, non ce ne sono. Armatevi di fiducia nell'istinto dell'orientamento. Se arriverete così, lo saprete rispettare questo luogo, e le uniche impronte che si troveranno dopo il saluto, saranno di quella colonia di gatti, che Stefania cura come suoi. Mi dice che qui, ogni tanto, qualche disgraziato (lo dico io, Stefania non usa nominarli) abbandona cucciolate di gatti e lei li raccoglie e li fa sterilizzare dal veterinario del paese vicino, "...altrimenti come faccio a sfamarli tutti?"
La scuola e l'unico genere alimentari del paese son stati chiusi trent'anni fa. 
La pluriclasse non era il meglio per genitori che pensavano si trovasse in un altro luogo, più grande e affollato, la giusta educazione per i propri figli. Come fargliene un'accusa? 
La miseria contadina di queste terre e l'incessante fatica a tirare a campare, devono essere state spinte sufficenti a lasciare quell'unica classe, a cercar speranza altrove.
Classe unica, con pochi bimbi di ogni età che s'aiutavano a crescere reciprocamente,
prima fra di loro, di orizzontali e verticali esperienze, solidali per parità di mondo, e poi con la maestra, baluardo di mondi diversi.
Ma la speranza quando spinge, involve, allontana, impoverisce.
Stefania ha le chiavi della chiesa, come Ennio. Le chiedo di visitarla e lei mi accompagna e mi ritrovo a pensare che potremmo essere amiche, ha una filosofia che conosco "qui sto in pace e se ho voglia di casino o di far la spesa in due ore vado e torno".
Mi mostra il quadro di San Paterniano che benedice Pozzuolo guardandolo da lontano e mi parla dei furti in chiesa.
Lasciando ancora tempo ad una sconosciuta, togliendolo alla pulizia della strada davanti casa come fosse sua, mi racconta gli aneddoti del fonte battesimale nascosto dietro il vecchio confessionale, che immagino, quest'ultimo, fosse di legno come nelle chiese del mio paese, inconfessabile nascondiglio di giochi da bambina.
E' ora di ripartire, ed è la prima volta che guardo le case, immaginandomi invecchiare dentro.


      
                                                                                               

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