sabato 19 novembre 2011

Sommesse promesse

Marc Chagall
                                                                                

Arrende la pancia
invecchia la micia
s’intima nell’incavo
del mio sonno fetale
sfiora, richiama una
carezza la coda
sulle mie mani promesse
in sposa a fertili speranze. 


giovedì 17 novembre 2011

Paesi murati, Loretello San Pietro Palazzo

Palazzo (foto di Francesca Perlini)

...Palazzo di Arcevia dista qualche chilometro, tenendosi sempre sollevato sul crinale che ogni tanto si fa roccioso. Decido che è l’ultimo paese in cui vado oggi. Il calcare bianco della porta d’accesso al paese è presagio di altra desolazione e una lastra di pietra a chiudere la buca delle lettere dell’ufficio postale che non vedo, è conferma che oggi incontro solo paesi murati. I cartelli qui sono al contrario, mettono buona speranza per chi fa affari sulla vendita dei paesi, “Venduta” è la casa in piazza. Svenduta come una femmina nella tratta dei sogni infranti. Fino ad oggi avevo visto paesi in vendita, oggi trovo il risultato del mercato e non so perché, ma m’immagino che sia stata una donna ad attaccare quel cartello. Felicità moderna.
Continuo a camminare tra vicoli vuoti e persiane chiuse. Cerco dettagli per salvare quell’infelicità a cui mi sono arresa, come il luogo più intimo che ho e che non sarà mai in vendita. Son dei piccolissimi orti terrazzati, congiunti da un labirinto di scalini ripidi che mi fanno sentire di nuovo a casa. I fili stesi da un orto all’altro con panni di diversi cognomi,  son fili stesi alla speranza di una famiglia che s’è allargata a comunità sopravvissuta. Su questo filo metto ad asciugare gli abiti della mia fuga, sospesa per il tempo del sole. Trovo una patria in bilico e provvisoria in cui posare gli occhi per riposare.
                          
                                                                                             
                                                   Piccolo stralcio dal racconto "Paesi murati, Loretello San Pietro Palazzo"

mercoledì 9 novembre 2011

Pozzuolo

A volte si ritorna sui propri passi, e non è tornare indietro.
E' rinnovare momenti che hanno segnato un'esperienza, felice o disgraziata.
Per una necessità di riscossa, ciò che m'interessa portare a presenza è la felicità, quella che ha radici in disgrazia, frutto maturo di un lavoro incessante, di fede fervente figlia, pianta del seme caduto nella gariga umana.
Di quel seme che non s'è arreso, perchè costituito della stessa sostanza terrena, fatta di terra arida e secca, è ammirabile il lavorio a cercar due vie, la discesa nella terra buia e la salita nella luce tra gli spiragli di pietra.
A tender l'orecchio il seme parla, della più semplice delle lingue:
"si fa con quel che c'è".
Le radici son poste, i mestieri della vita fervono e torno a riveder Pozzuolo.


Pozzuolo (foto di Francesca Perlini)


La Provinciale 103 è vuota. Vuota di auto per essere una strada, piena di tratti per fermarmi e camminarla.
Ricerco la curva, dopo la Pineta, da cui scoprii Pozzuolo. Ricerco il sussulto, lo stupore della prima visione e lascio l'asfalto per una prospettiva nuova.
La stessa, che scoprirò più tardi, essere stata di San Paterniano nell'atto di benedire il paese, ma Pozzuolo è benedetto da se stesso, s'è salvato dal degrado collettivo, è rimasto sposo fedele della terra che l'ha accolto. 
Rimango un tempo a camminare su questa strada bianca, c'è un piacere nei miei piedi che a tratti dimentica gli occhi e Pozzuolo al di là della stretta vallata. E' l'autunno nei piedi.
Ci penetriamo, non so più se son io a entrare nella terra o è la terra che penetra in me. E' la stagione fertile, è la stagione unita.
Può l'asfalto piantar semi d'amore? Può l'architettura gerarchica delle strade moderne costruire legami fedeli e duraturi?
Non è forse follia e allontanamento, l'autostrada della modernità?
Il mio seme arreso a questa terra, all'autunno dell'esistenza, ha radici profonde.
L'arresa è all'illusione di luoghi migliori, salvezza dallo sradicamento.
Mi sento di nuovo a casa.
Riprendo la via verso Pozzuolo e stavolta incontro qualcuno in paese, forse è la mia disposizione più serena, il desiderio di metter qualche parola nell'essere luogo, che necessita solitamente di silenzio e solitudine.
Un padre ed un figlio, Ennio e Gianfranco, mi raccontano che qui abitano una quarantina di persone. La terra non la lavora più nessuna famiglia. Solo qualche grande azienda agricola continua l'opera. Un venditore ambulante, di origini nord africane, col sacco di plastica legato alla bell'e meglio è salutato da Ennio, ed è il modo che mi tocca, una pacca sulla spalla "come va?"
Di nuovo torno a pensare che in questi piccoli luoghi, riparati dalle folli e difficili dinamiche dei grandi numeri, l'integrazione non esiste perchè è risvolto naturale di volti diversi. Si è integri dentro. Due padri si riconoscono, le stesse rughe, la stessa pesantezza, di un bastone uno e di un sacco di tappeti l'altro.
Per arrivare a Pozzuolo non cercate cartelli col suo nome, non ce ne sono. Armatevi di fiducia nell'istinto dell'orientamento. Se arriverete così, lo saprete rispettare questo luogo, e le uniche impronte che si troveranno dopo il saluto, saranno di quella colonia di gatti, che Stefania cura come suoi. Mi dice che qui, ogni tanto, qualche disgraziato (lo dico io, Stefania non usa nominarli) abbandona cucciolate di gatti e lei li raccoglie e li fa sterilizzare dal veterinario del paese vicino, "...altrimenti come faccio a sfamarli tutti?"
La scuola e l'unico genere alimentari del paese son stati chiusi trent'anni fa. 
La pluriclasse non era il meglio per genitori che pensavano si trovasse in un altro luogo, più grande e affollato, la giusta educazione per i propri figli. Come fargliene un'accusa? 
La miseria contadina di queste terre e l'incessante fatica a tirare a campare, devono essere state spinte sufficenti a lasciare quell'unica classe, a cercar speranza altrove.
Classe unica, con pochi bimbi di ogni età che s'aiutavano a crescere reciprocamente,
prima fra di loro, di orizzontali e verticali esperienze, solidali per parità di mondo, e poi con la maestra, baluardo di mondi diversi.
Ma la speranza quando spinge, involve, allontana, impoverisce.
Stefania ha le chiavi della chiesa, come Ennio. Le chiedo di visitarla e lei mi accompagna e mi ritrovo a pensare che potremmo essere amiche, ha una filosofia che conosco "qui sto in pace e se ho voglia di casino o di far la spesa in due ore vado e torno".
Mi mostra il quadro di San Paterniano che benedice Pozzuolo guardandolo da lontano e mi parla dei furti in chiesa.
Lasciando ancora tempo ad una sconosciuta, togliendolo alla pulizia della strada davanti casa come fosse sua, mi racconta gli aneddoti del fonte battesimale nascosto dietro il vecchio confessionale, che immagino, quest'ultimo, fosse di legno come nelle chiese del mio paese, inconfessabile nascondiglio di giochi da bambina.
E' ora di ripartire, ed è la prima volta che guardo le case, immaginandomi invecchiare dentro.


      
                                                                                               

domenica 6 novembre 2011

Con Don Aniello Manganiello a Osimo

Inseguivo Don Aniello da due anni, dalla prima volta che lo vidi, ma soprattutto ascoltai raccontare dalla televisione la sua esperienza di vita a Scampia.
Grazie ad una libraia, minuta e deliziosa, con una libreria a Osimo che è una favola vivente, ieri ho finalmente conosciuto Don Aniello e l'inseguimento s'è fatto incontro.


Don Aniello Manganiello (foto di Francesca Perlini)


A volte rifletto su quanto i luoghi siano importanti per far sì che un incontro sia buono. Penso alla geografia. Ai contorni, a quel che ci sta dentro, ai muri e alle facciate e a ciò che sta fuori, le vie e le piazze. Un confine che segna per sua stessa natura le periferie.
Salendo verso Osimo, il pensiero rimbalza tra il luogo e l'incontro con Don Aniello. Mi chiedo cosa li possa legare, e la risposta è lì, la più ovvia, la mia esperienza.
Prima di arrivare alla libreria Il Mercante di storie, nome che evoca, che apre, una scatola come uno scrigno di giochi segreti che vien solo voglia di starci dentro, passeggio per la cittadina. Stavolta non son sola, due amiche mi accompagnano. Solitamente è la dimensione solitaria e silenziosa che cerco, come una necessità per "essere luogo". 
La natura del viaggio che di un incontro umano si tratta, ha fatto sì che questa esperienza si sia aperta subito ad una condivisione, ad una compartecipazione.
Cammino per le vie, in un saliscendi continuo, con l'ansia del poco tempo a disposizione prima dell'incontro. Mi riprometto di tornare, con la luce del giorno a rischiarare questi angoli che la corsa appiattisce nell'ascolto. Io e Osimo ci ridiamo un appuntamento, una seconda possibilità.
Arrivo, arriviamo all'angolo di una piccola piazzetta adiacente a Corso Mazzini, la libreria è lì, le luci delle piccole finestre al primo piano sono accese, il richiamo si fa fanciullo nelle mie gambe e mi ritrovo a correre e a entrare di getto.
E' come nella mia immaginazione, piccolo, intimo, una narrazione continua, ogni bimbo e bimba di tutte le età son pensati qui. Mi sento a casa e son felice.
Stabilisco subito con Tiziana, la libraia, una simpatia, forse è empatia ma non so per cosa, e ripenso all'importanza dei luoghi rispetto agli incontri. 
Parliamo di progetti, di idee e vorrei che questa libreria fosse nel mio paese.
Salgo la piccola scalinata, al primo piano l'aria è di attesa, sta per accadere qualcosa d'importante.     
Don Aniello arriva e comprendo che con lui ogni luogo va bene per incontrarsi, il carisma, anche solo della sua faccia, lo crea immediatamente, perchè lo crea dentro, intimamente. 
Ci salutiamo come se ci conoscessimo da sempre, i confini ci sono ma le porte sono aperte, credo che sia la portata della sua esperienza a creare un'intimità che declina impegno civile e fratellanza.
Nel giro di pochi minuti la saletta si riempie e le parole, che chiamo unite perchè provengono dal laboratorio della vita, cominciano a muoversi dalla bocca di Don Aniello.
Mi son chiesta molte volte cosa renda un uomo o una donna esempi per altri uomini e donne, la domanda non ha mai risposte certe, l'apertura a rivisitazioni e ripensamenti non crea dogmi, seppur c'è un pericolo, la creazione del mito.
La forza dell'esperienza riporta i pericoli a zero, le intenzioni di un uomo si fanno terra sotto i suoi piedi e strada da percorrere, scelte da compiere e azioni che diventano fatti.
Colgo Don Aniello in questo e l'istituzione della chiesa, quella fatta invece di dogmi e potere che presta le sue mani a qualsiasi forma di sfruttamento e manipolazione, son due mondi tanto distanti quanto vicini.
La distanza è evidente, basti conoscere Don Aniello per saperlo, ma la vicinanza non è immediata da comprendere.
Mentre il racconto di Don Aniello continua, mi chiedo come possa rimanere dentro quell'istituzione ecclesiale (non tutta, ma una parte sufficente per "cacciarlo" dopo 16 anni di buon lavoro da Scampia) che ha combattuto contro di lui al pari della camorra. 
Ecco la vicinanza: Don Aniello la chiesa la cambia da dentro.
"Per amore di Scampia non tacerò", doveva essere il titolo del libro che stringo forte nelle mie mani, Don Aniello non tace, come non lo ha fatto Don Peppino Diana ("Per amore del mio popolo non tacerò" documento diffuso a Natale 1991 in tutte le chiese di Casal di Principe e della zona aversana da Don Peppino Diana e dai parroci della forania di Casal di Principe) non presta il silenzio, il corpo parla perchè è esperienza.
Dell'anima incarnata, una certa chiesa ne ha fatto scorporamento, scettro di potere dalla privazione del piacere, mentre ogni uomo sano e libero sa che un'anima senza un corpo non è nulla in questa vita, e pure Don Aniello lo sa, chiesa come corpo, processi educativi come anima.
"Solo la denuncia e l'educazione alla legalità non bastano. Ci vuole la qualità della vita" dice Don Aniello, e quella qualità è lavoro, legami, benessere e piacere. Senza corpo non è possibile, l'anima da sola non basta. 
L'incontro termina, Don Aniello torna a Napoli. S'è preso un anno sabbatico ed è tornato da dove una certa chiesa lo ha allontanato, "...intanto mi prendo un anno, poì chissà...", un uomo libero lo rimane sempre.
Ci salutiamo che è un arrivederci, per me una promessa verso me stessa a rimaner libera nel mio corpo.


                                                                                


Rizzoli ha deciso che "Gesù è più forte della camorra" fosse il titolo del libro di Don Aniello Manganiello con Andrea Manzi. Merita la lettura al di là delle scelte editoriali: http://rizzoli.rcslibri.corriere.it/autore/manganiello_don_aniello.html

Intanto visitate il sito del Mercante di storie, poi andateci col corpo!  http://www.ilmercantedistorie.it



giovedì 3 novembre 2011

D-Istanti scolpiti



                                                "Paesaggio marchigiano. Il trologo" di Osvaldo Licini


Ci son cose che 
non riesco a ricordare
non le ho messe nel cuore.
Son cose
forse persone
forse luoghi
forse momenti.
Le richiamo
ma non so cosa amo
non le ho messe nel cuore.
Le invito 
per tenerle in vita
non vengono.
Non le ho messe nel cuore.