venerdì 26 aprile 2013

1986





1986. 
17 anni, io, e un manipolo di amici, riscaldati nella speranza da un sole senza dubbi dal primo giorno di maggio.
Ricordo il cielo più che altro, un momento in particolare che nella memoria si è dilatato fino a riempire tutto lo spazio di cosa accadde quel giorno di 27 anni fa.
Le foglie nuove della quercia, appena increspate da una brezza ombrosa, mi riparavano dal sole cocente del mezzogiorno. La coperta rubata a mia nonna l'avevo stesa prossima al confine tra sole e ombra della quercia secolare, le erbe da poco falciate, cresciute nell'anno dopo il primo maggio dell'anno precedente, erano a tratti appuntite, ma la mia coperta non me ne faceva sentire la durezza. L'avevo scelta bene, ma dopo poco dimenticai il timore che mia nonna scoprisse il furto della sua coperta migliore, quella che tocca alla prima figlia femmina che si sposa.
Un mangiadischi arancione appoggiato sul tavolo tra formaggi fave e pane, suonava i Queen, Bohemian Rhapsody a ripetizione fino a che le batterie si esaurirono. Il pezzo piaceva a tutti, soprattutto al proprietario del disco che per quella giornata si era autoeletto a dj, non sapendo suonare nessuno la chitarra.
Eravamo ancora tutti amici, pur con età molto diverse. 
Eravamo giovani e questo in paese era sufficiente. Nessuno fidanzato, stato che fungeva da discrimine per formare la compagnia. Le coppie avevano scelto altre mete ed altri assortimenti. Il confine degli intenti era anche nella scelta del luogo per festeggiare il nostro primo maggio, noi il campo con la casa di campagna disabitata e per questo sinonimo di libertà, loro il ristorante come prova, forse, del banchetto nuziale.
Quel momento all'ombra della quercia con lo sguardo tra foglie e sole aveva qualcosa d'infinito, nell'adesso risiedeva tutto il mondo possibile che potevo cogliere, ogni altrove era ovunque il mio sentimento di libertà. 
Ma il mio sole era ignaro di essere impuro. 
Chernobyl era esplosa 6 giorni prima e noi non lo sapevamo, esposti e aperti come pori senza membrane.
Credo sia per questo che da allora in ogni situazione, incontro o luogo spaventosamente bello mi chiedo dove sia l'invasione occulta di qualcosa di pericolosamente nocivo alla mia libertà.
Morirono un poco libertà e futuro il primo maggio del 1986.


venerdì 19 aprile 2013

Idee bislacche prima del futuro



scatto di francescaperlini


Pensando a due parole, paesaggio e conservazione, e alcuni dintorni.
Che gli italiani siano dei conservatori è lampante ovunque, ma il paesaggio fa scricchiolare se non addirittura crollare l'idea conservatrice impressa sin nelle cellule: si degrada e si sbriciola; monumenti lasciati all'incuria disegnano nuovi desolanti paesaggi urbani; antenne come funghi su crinali collinari non più dolci quando non è una nuova discarica a mangiarne i fianchi; periferie di villette a schiera, gialle o rosa, che sberciano paesi murati nel loro senso antico fondato nella terra.
Basterà avere pazienza, sino a dimenticare da dove veniamo e allora forse anche in parlamento succederà qualcosa di nuovo e l'Italia di oggi sarà in un libro di storia e nei titoli di coda di un film di fantascienza. 
Sempre che la carta ci sia ancora.



martedì 16 aprile 2013

venerdì 5 aprile 2013

Al di là del visibile



"Pietà di Michelangelo"


Il solito supermercato, il solito giorno della spesa, la solita ressa alle casse e il solito tempo per osservare.
Al di là delle casse su di una panchina (pare che dalle piazze le abbiano spostate nei centri commerciali, da momento dell'ozio è diventato il tempo dell'azione), un giovane uomo aiuta una donna sulla sessantina a sdraiarsi con la testa sulle ginocchia di quello che a prima vista mi sembra essere il compagno. 
Ora ho fretta di attraversare il gate del conto per portare l'aiuto che posso.
La donna ha i capelli curati, gli occhi truccati appena di celeste, brillano vivi di tristezza.
Il giovane mi chiede se io sia un medico -no, ma posso chiamarlo-
La donna mi guarda, io non riesco a guardare la faccia dell'uomo che le tiene la testa sulle sue gambe. Conosco quello sguardo, è insostenibile da fuori, è lo sgomento del dolore dentro.
-Ho fatto una cura importante. Mi sento stanchissima, ho perso tutte le forze, sto un pò sdraiata poi mi riprendo. Mi sentivo bene prima di uscire di casa, sono voluta uscire, ne avevo voglia- mi dice delicatamente la donna, mentre il figlio mi guarda come una supplica e il marito è ormai annichilito. Dico marito, pur non sapendolo, dico figlio non sapendo neppure questo, ma le somiglianze, i legami familiari dell'affetto nella malattia sono universali nell'espressione.
Restiamo in silenzio. Cosa c'è poi da dire? Già tanto l'aria si sta riempendo d'emozione che ascoltarla e piantare i piedi a terra è tutto ciò che c'è da fare.
-Mi sento già meglio- sempre dolcemente dice la donna che ha come una carezza negli occhi, mentre il marito c'ha le lacrime. Penso che sia lui quello messo peggio: il terrore, lo strazio e l'impossibilità di salvare la persona che si ama mescolati assieme hanno una chimica devastante per chi li vive.
Si fa vicina una guardia della sicurezza che sottovoce chiede se è il caso di chiamare il medico presente nel supermercato. Incredibile come tutti i volumi si stiano intonando alla voce della donna. Accetta.
-Mi ricorda mio padre- le dico e scappo via.